Il cosiddetto danno da nascita indesiderata si inserisce nel tema della libertà di autodeterminazione in ambito sanitario (si veda a tal riguardo la sezione “DANNO DA LESIONE DEL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE”) e merita tuttavia, per la sua specificità, una trattazione a parte.
In particolare, con danno da nascita indesiderata intendiamo la lesione della libertà di autodeterminarsi rispetto alla scelta procreativa a causa dell’omessa diagnosi da parte del medico di gravi malformazioni del feto[1].
Problematica è la questione circa la spettanza delle varie pretese risarcitorie:
- Non è mai stata negata la pretesa risarcitoria della madre;
- La giurisprudenza ha negli anni affermato la risarcibilità del danno anche a favore del padre, infatti il risarcimento stesso “spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura ove egli opera non può ritenersi estraneo il padre che deve, perciò, considerarsi tra i soggetti “protetti”…con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra cui deve ricomprendersi il pregiudizio patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli”…”non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all’interruzione della gravidanza, atteso che, pur sottratta alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all’interruzione della gravidanza, agli effetti negativi del comportamento del medico non può ritenersi estraneo il padre”
In entrambi i casi il genitore che agisca per il risarcimento deve provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite “praesumptio hominis“, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale. Diversa è la posizione del bambino. La giurisprudenza infatti non ha mai riconosciuto a questo il “diritto a non nascere se non sano”. Infatti da Cass. civ., Sent., n. 14488/2004 può ricavarsi che “l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la “non nascita”, essendo pertanto (al più) configurabile un “diritto a nascere” e a “nascere sani”, suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione: sotto il profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da “contatto sociale”, nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso ); sotto il profilo – latamente pubblicistico, nel senso che debbono venire ad essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità idonei a garantire (nell’ambito delle umane possibilità) al concepito di nascere sano. Non è invece in capo a quest’ultimo configurabile un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano”, come si desume dal combinato disposto di cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978, in base al quale si evince che: a) l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente a tale termine); b)trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre; c) le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e non già in sé e per sé considerate (con riferimento cioè al nascituro)”… e, nello stesso senso, Sez. Unite, Sent., n. 25767/2015 hanno tra l’altro affermato che ”Né può essere sottaciuto, da ultimo, il dubbio che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dalla Legge n. 194 del 1978, articolo 6, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire. E per quanto si voglia valorizzare un metodo antiformalista nella configurazione dell’illecito, valorizzando i principi di solidarietà ex articoli 2 e 3 Cost., occorre pur sempre evitare straripamenti giudiziari influenzati dal fascino, talvolta insidioso, del metodo casistico (case law System), nell’ambito di un sistema aperto, quale configurato nella norma generale dell’articolo 2043 c.c. (con l’espressione introduttiva: “qualunque fatto”…) in cui non si possono operare, a priori discriminazioni tra fatti dannosi che conducono al risarcimento e fatti dannosi che lasciano le perdite a carico della vittima”.
[1] R. Giovagnoli – Manuale Diritto Civile 2019
Cass. Civ., Sez. III, Sent., (data ud. 06/05/2004) 29/07/2004, n. 14488
Cass. Civ., Sez. III, Sent., (data ud. 27/09/2005) 20/10/2005, n. 20320
Cass. Civ., Sez. III, Ord., (data ud. 18/09/2014) 23/02/2015, n. 3569
Cass. Civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 22/09/2015) 22/12/2015, n. 25767
Cass. Civ., Sez. III, Sent., (data ud. 27/09/2016) 11/04/2017, n. 9251
Cass. Civ., Sez. III, Ord., (data ud. 05/12/2017) 05/02/2018, n. 2675
Cass. Civ., Sez. III, Sent., (data ud. 27/10/2020) 15/01/2021, n. 653